19 ottobre 2010 - Inerti di fronte a un dramma: le risposte della psicologia sociale..



Niente ferisce di più dell’indifferenza degli altri verso chi è in difficoltà. Lo sapeva bene Madre Teresa che raccoglieva feriti, malati, moribondi, abbandonati per strada, pressoché invisibili agli occhi di tutti. Era quella la prima ferita da lenire, con un abbraccio, una carezza silenziosa, prima ancora del dolore fisico o dei morsi della fame o della sete.

La stessa ferita che strazia i familiari di Maricica Hahaianu - la donna romena di 32 anni colpita da un pugno in faccia, sferrato da un giovane durante una colluttazione seguita ad un banale diverbio, e stramazzata a terra priva di sensi, venerdì 8 ottobre alla stazione Anagnina della metropolitana di Roma - e scuote gli spettatori che hanno visto il filmato dell’aggressione risultata fatale per la donna. Il video mostra i passanti che fanno finta di niente, svicolando a passo svelto. Passerà almeno un minuto prima che qualcuno “decida” di fermarsi e chiamare i soccorsi. Solo l’aggressore che si allontana incurante viene bloccato prontamente da un sottoufficiale della Capitaneria di porto in borghese che ha assistito a tutta la scena: la lite, il pugno e il tonfo del corpo della donna che cade.

Perché è così difficile entrare in contatto con un estraneo che in quel momento è esanime, per terra?
I risultati di alcune ricerche nel campo della psicologia sociale indicano che si tratta proprio di un processo decisionale, una scelta consapevole tra diverse e a volte contrastanti opzioni.
Le forze situazionali, più di altre, condizionano il nostro comportamento. In che modo si combinano? Possiamo difendercene?

Le ricerche in questione presero le mosse da un fatto di cronaca avvenuto a New York il 13 marzo 1964 che destò molto scalpore ed un coro di polemiche sull’insensibilità di coloro che avevano modo di sentire o di vedere momenti diversi di una aggressione: alle tre del mattino, di ritorno dal lavoro, Kitty Genovese viene accoltellata. Ancora viva, disperata, chiede aiuto. Molti la sentono. Si accendono le luci negli appartamenti vicini. L’aggressore scappa. Ma nessuno interviene. A questo punto l’aggressore ritorna, la violenta. Kitty morirà mentre viene portata in ospedale.

A partire dal dramma di Kitty, due psicologi sociali, John Darley e Bibb Latané avviarono uno studio sperimentale, ricreando in laboratorio delle situazioni di emergenza.
I risultati mostrarono che la maggior parte dei partecipanti all’esperimento era soggetta a forti dinamiche situazionali che avevano ostacolato il comportamento di aiuto.
La variabile più importante sembra essere la diffusione della responsabilità (ci si sente meno in dovere di intervenire qualora siano presenti altri potenziali soccorritori).
Ciò “mette in crisi la convinzione - radicata trasversalmente nelle varie culture - secondo cui, trovandoci in difficoltà, un elevato numero di astanti assicurerebbe una maggiore probabilità di ricevere aiuto - commenta Piero Bocchiaro, psicologo sociale formatosi alla Stanford University, nel saggio “Psicologia del male” (Editori Laterza). E’ sorprendente inoltre scoprire che non c’è alcuna differenza tra maschi e femmine nel soccorrere una vittima”.

E cosa prova chi non ha soccorso una donna sapendo che avrebbe potuto?
Lo psicologo Albert Bandura individua dei dispositivi mentali di “sicurezza” che realizzano una sorta di disimpegno morale e liberano dal senso di autocondanna.
Meccanismi psicologici difensivi quali:
> la diffusione della responsabilità (che spiegherebbe anche il maggior numero di episodi di mancato soccorso registrati nelle grandi città rispetto ai piccoli centri);
> distorsione delle conseguenze (il video della stazione della metropolitana di Roma mostra che coloro che non hanno prestato soccorso potevano anche essere caduti in un equivoco perché avevano visto solamente una donna a terra e non la colluttazione che ha preceduto il pugno in pieno volto. O non si sono rese conto della gravità delle condizioni della donna);
> attribuzioni di colpa (attribuire alla vittima la colpa del’accaduto, come frasi del tipo “l’aggressore è stato provocato ed è stata la sua vittima a cercarsi i guai”. In particolare, l’aggressore può reinterpretare il suo comportamento come reazione obbligata ad un torto vero o presunto, ritenendosi bersaglio di un evento minaccioso.

Esaminiamo adesso l’incidente di Mario M, un uomo di mezza età, caduto, forse per uno sbandamento provocato dal caldo o da un improvviso colpo di sonno, dalla propria moto.
E’ un pomeriggio domenicale di estate in una grande città. Poca gente in giro. Una cosa scomposta si muove debolmente sul ciglio della strada. Sembra un fagotto di stracci. Le auto e gli autobus gli scorrono attorno, qualcuno lo guarda indifferente senza fermarsi. Ad un certo punto giunge una donna, Anna S. alla guida di un’auto: rallenta, osserva con attenzione quel mucchio indistinto, riconosce una mano e frena per fermarsi. Anna è una psicologa che sta tornando dal mare, con il figlio adolescente. Il figlio prova a protestare: “Mamma, perché proprio tu? Non abbiamo tempo da perdere, sono stanco, ho sonno, voglio andare a casa”. Ma la madre non lo ascolta. “Io resto in macchina”, dice deciso il ragazzo.
La donna posteggia in una stradina laterale e corre verso l’uomo a terra. Vedendola arrivare, anche un altro passante si ferma, armeggia con il telefonino e chiama l’ambulanza. Ben presto intorno all’uomo si raccoglie un gruppetto di persone - parlano di lui ed in sua presenza, senza rivolgergli direttamente lo sguardo o la parola, come di un qualcosa che attrae ed allo stesso tempo quasi disgusta e ripugna, aspettando che giunga l’ambulanza - né lui osa rivolgersi a loro.

Per l’uomo a terra, isolato in un mondo estraneo e capovolto, il tempo sembra essersi fermato, mentre gli altri gli si agitano confusamente intorno. E’ pallidissimo, con lo sguardo attonito, la bocca socchiusa, la lingua scomposta tra i denti, ma non mostra segni evidenti di ferite. Tiene la mano sinistra raccolta sul petto, mentre l’altra è più rigida, forse dolorante.
La donna lo valuta attentamente: sembra più che altro confuso, scioccato, spaventato. Si siede accanto a lui sul ciglio della strada, lo guarda negli occhi, lo rassicura ripetendo più volte “Stia tranquillo”, poi avvicinando la sua mano alla mano sinistra di Mario gli dice “mi dia la mano”.
Lui esegue e quel contatto lo riconnette con il mondo. Riprende un colorito normale, alza il busto, sedendosi sul bordo della strada, a ridosso del marciapiede. Solo allora gli altri spettatori trovano il coraggio di parlargli direttamente. Anche Mario parla, risponde alle domande - cosa è successo, dove sente dolore - tutti sembrano animati dal desiderio di fare qualcosa, un uomo gli offre un bicchiere d’acqua, un altro sposta la moto di Mario in un angolo più riparato. Anna comprende che il peggio è passato, che può fare ritorno alla macchina dove il figlio la sta aspettando.

Ma chi è il soccorritore, questo “eroe”, spesso anonimo, che non può restare indifferente e varca la frontiera decisionale tra inerzia e azione?
“Gli eroi sono in genere eroi della vita quotidiana, i quali in particolari situazioni si coinvolgono in azioni straordinarie
- osserva Zimbardo, una delle figure più autorevoli della psicologia sociale contemporanea, nella prefazione al saggio di Bocchiaro - si tratta naturalmente di minoranze, individui peraltro ancora poco noti alla psicologia”.
Negli esperimenti analizzati una minoranza di partecipanti agiva in modo opposto agli altri, intervenendo a favore della vittima. “Possiamo affermare che qualcosa ha attivato in loro i canali dell’empatia, del pensiero critico, del senso di giustizia”, commenta Bocchiaro.

Seguendo la teoria dello sviluppo morale elaborata da Martin Hoffman, professore di psicologia alla New York University, nell’individuo adulto l’obbligo etico ad aiutare qualcuno in difficoltà nasce spontaneamente dall’interno come espressione di principi interiorizzati di cura, di giustizia.
Tuttavia “l’empatia trasforma i principi morali in cognizioni prosociali calde: rappresentazioni cognitive cariche di affetto empatico, e pertanto di forza motivazionale”. (Martin Hoffman, Empatia e sviluppo morale, il Mulino Saggi).
La “sofferenza empatica” (l’affetto empatico suscitato direttamente dalla vittima) costituisce dunque la motivazione primaria che spinge all’azione, non consentendo di sottrarsi dalle responsabilità, e quasi “obbliga” ad intervenire concretamente in aiuto. “Non potevo sopportare di vederlo a terra come un oggetto” dirà Anna, commentando l’accaduto.

Al di là del valore speculativo, questi studi sono importanti per comprendere le motivazioni psicosociali dell’inazione, stigmatizzata come indifferenza, ma ancor di più a contrastarla, in modo da indurci ad aiutare il prossimo quando se presenterà l’occasione.

di Rosalba Miceli
Fonte: LA STAMPA