“San Nicola, facci il miracolo”
prof. Luciano Giacchè (CEDRAV)
Nelle memorie della tradizione intorno al farro, c’è anche San Nicola che lo distribuì ai poveri di Monteleone di Spoleto
"Clauerniur dirsas herti fratrus atiersir posti acnu/farer opeter p. III agre tlatie piquier martier et sesna/homonus duir puri far eiscurent ote a. VI".
Le Tavole Iguvine che chiedono ai Claverni di dare ai confratelli Atiedii, in rapporto alla circoscrizione, 6 libbre di farro e una cena ai due uomini incaricati di riscuotere il farro, testimoniano non solo la presenza di questo cereale in Umbria nella seconda metà del II secolo a.C., ma anche il suo uso rituale per il pagamento di tributi. Un uso confermato anche dall'iscrizione romana dell'orologio solare di Bevagna che si deve a un Nortinus e un Ofedius (o Aufidius), qualificati come "questores far(r)arii", questori del farro, addetti alla riscossione dei tributi in natura.
Al bronzo delle Tavole di Gubbio ed alla pietra della meridiana di Bevagna è affidata la più antica memoria scritta del farro in Umbria, un alimento di fondamentale importanza da cui derivano direttamente termini come "farina" (far(r)ina) e "foraggio" (farrago) o espressioni come "sfarrare", che indica l'operazione di frantumazione dei chicchi di grano, o "farragine/farraginoso" per coacervo disordinato di componenti.
Diffusamente presente nel territorio come coltivazione dominante soprattutto in epoca romana e saldamente presente nella nostra lingua come matrice di termini di largo uso, il farro è progressivamente andato in disuso anche per la sua caratteristica di frumento "vestito", che rende molto laboriosa l'operazione di liberare il seme dalla pula.
Gli sono stati così preferiti i frumenti nudi a cui appartengono le varietà di cereali oggi in coltivazione ed il farro è sopravvissuto solo in poche aree, quasi tutte collocate nelle alte quote dell'Appennino, grazie alla rusticità delle varietà locali, adattate al difficile ambiente montano.
Nella nostra regione, in particolare in Valnerina nell'area di Monteleone di Spoleto, questa coltura si è perpetuata per secoli, come attesta la ricca documentazione archivistica relativa al "farre" (Triticum dicoccum) ed allo "spelda" o "spelta" (Triticum spelta), anche se il suo valore era considerato inferiore a quello del grano. Questa differenza si desume dallo Statuto cinquecentesco del Comune di Monteleone di Spoleto che comminava ammende per danni arrecati alle coltivazioni commisurati al pregio delle colture e "si alcuno falciarà grano e biadi per dare all'animali si sarà orzo, spelta o farre in libre dieci di dinari sia punito et si sarà grano in libre venticinque senza diminutione et rifaccia il danno al padrone duplicato..."
Un'ulteriore testimonianza di questa differenza viene offerta sempre da documenti conservati nell'archivio comunale di Monteleone di Spoleto in cui sono elencate le derrate alimentari che vengono inviate a Spoleto per il sostentamento dell'esercito del Regno di Napoli al comando di Gioacchino Murat, vittorioso sui Francesi e accolto con favore dalla popolazione della Valnerina che si era assoggetta di malavoglia al Dipartimento francese del Trasimeno. Nello "Stato degli Individui, che somministrano i Fieni, e Biada che servono per la Cavalleria Napoletana in Spoleto. 1813" e nei "Fogli di Biada, e Fieno spedito in Spoleto in occasione che passo la truppa napoletana. 1814" sono elencati anche i conferimenti di farro dei singoli agricoltori ed il prezzo pattuito. In nessuna delle due occasioni venne consegnato il grano che evidentemente gli agricoltori preferivano riservare per sé. Ridotto, nel secondo dopoguerra, ad alimento per animali, in particolare per cavalli, il farro ha da qualche anno ritrovato una crescente fortuna, tanto da venire ormai proposto come specialità da molti ristoratori, dapprima a Cascia, poi a Norcia ed ora in molte località della regione. E' stata cosi premiata la costanza di pochi coltivatori di Monteleone che, realizzando artigianalmente anche i macchinari per la pulitura del farro, hanno perpetuato la coltivazione di questo cereale nella varietà locale del Triticum dicoccum.
La diffusione del farro nella zona di Monteleone di Spoleto è attestata anche dagli appellativi di "mangiafarre" o "farrari de San Nicola" con cui gli abitanti dei comuni vicini indicavano i monteleonesi. Quest'ultima denominazione fa riferimento al rituale del "Farro di S. Nicola" che si svolge da tempo immemorabile il 5 dicembre, nella vigilia della ricorrenza del Santo, patrono del paese.
Il parroco prepara nella canonica della chiesa di S. Nicola una minestra di farro che viene cotta in un grande caldaio appeso sul focolare. Il farro viene distribuito a mezzogiorno con sugo di magro agli abitanti di Monteleone, a cominciare dai bambini che sono i destinatari privilegiati del rituale e che, per l'occasione, anticipano l'uscita dalla scuola.
Il rituale vuole ricordare il miracolo che la tradizione attribuisce a S. Nicola che, passando per Monteleone ed impressionato dalla indigenza dei suoi abitanti, avrebbe consegnato il farro per sfamare i poveri. In realtà si tratta della trasposizione di un episodio dell'agiografia del Santo, nato e vissuto in Asia minore fra il III e il IV secolo, ricordato come il prodigio delle "Navi agrarie" che, per intercessione di S. Nicola, avrebbero portato il grano agli abitanti di Mira, stremati dalla fame dopo un lungo periodo di carestia. Un analogo prodigio è attribuito a S. Nicola anche in favore degli abitanti di Bari che nel 1087 ne trafugarono le spoglie e gli dedicarono la loro chiesa cattedrale.
Il Santo, venerato in tutta Europa come elargitore di doni e protettore dei giovani, è stato dopo la Riforma protestante progressivamente sostituito in questo ruolo da Gesù Bambino e, successivamente, da Babbo Natale. Anche a Monteleone di Spoleto, la festa di S. Nicola non s'identifica più per i bambini con la distribuzione dei regali, che fino al secondo dopoguerra consisteva solo in qualche castagna, e pure qui sono Gesù Bambino, Babbo Natale e la Befana a portare i regali.
Certamente, però, la permanenza di questo singolare rituale ha favorito la continuità della coltura del farro a Monteleone, tanto da diventare un tratto caratterizzante di questo territorio.
ORIGINE DEL FARRO
a cura di Patrizia Penazzi
Il farro era coltivato già 8000 anni prima di Cristo nel Neolitico. Reperti archeologici ce lo indicano originario del medio oriente: Mesopotamia, Siria, Palestina, Egitto.
Cariossidi di Triticum dicoccum sono state rinvenute in alcune tombe egiziane anteriori all’età dinastica, i Badariani dediti all’agricoltura iniziarono la sua coltivazione facendone zuppe e focacce. In seguito si diffuse in Anatolia e nel Mediterraneo.
A Worms, in Germania, il Farro era presente all’età della pietra, ad Aquileia, all’età dl bronzo ed anche a Monteleone nella tomba della Biga (seconda metà del VII se. a.C.)
In Italia, il Farro era coltivato fin dal V sec. a.C. e fu diffuso dai Romani in tutta la penisola.
Esso trovò il suo spazio di mercato poiché resisteva alle malattie e, grazie alla buona riuscita, in terreni aridi e poveri.
Per i Romani era parte integrante del vettovagliamento dell’esercito. Il medico Galeno menziona la sostituzione del farro all’orzo per gli eserciti ritenendo questo cereale più energetico e nutriente.
Secondo le Leggi delle XII Tavole, per ogni prigioniero si doveva provvedere una libbra di farro. Inoltre, era usato come moneta di scambio e come offerta nei matrimoni.
Nell’antico diritto romano, vigeva il rito della “Confarreatio” che consacrava il passaggio della donna nella famiglia del marito. Tale ritualità era riservata ai patrizi. La futura sposa offriva al marito ed alla sua famiglia, una focaccia o del pane a base di farro.
Un altro aspetto particolare del farro era il suo uso nelle cerimonie religiose.
Un dono propiziatorio alle divinità contadine, era, infatti, la “mola salsa”.
Poteva essere in chicchi o frina miscelata con acqua e sale.
Era offerto invece in modo integrale a Ceres, dea delle Messi, durante il periodo della semina (feriae sementivae) e proprio per la sua protezione, era considerato il chicco della potenza.
Poiché il chicco è avvolto da una pellicola molto dura, i Romani originarono una festa chiamata “Fornacalia” che diffuse la tecnica di arrostire il farro per liberarlo dalla buccia.
Tostare il farro divenne presto una pratica quotidiana degli antichi abitanti dell’Italia.
Con questo cereale a Roma si preparava il “puls”, minestra di cereali lessati ed il “libum”, la focaccia da offrire agli dei.
Alla comparsa del grano, nel medioevo, il farro iniziò a perdere la sua popolarità anche perché difficile da coltivare in quanto cade molto facilmente sul terreno durante la fase finale della crescita rendendo complicata la raccolta.
Inoltre, a confronto di altre colture, il rendimento della produzione per ettaro non è molto proficuo.
Un altro dei motivi per cui la coltivazione fu abbandonata nei secoli passati è che la sua farina ed i prodotti che ne derivano, posseggono un alto contenuto di fibre: ragione fondamentale per cui oggi, proprio per queste caratteristiche, è stato rivalutato ed inserito saggiamente nelle diete alimentari.
Si può dire che se il farro è ancora sulle nostre tavole lo si deve a tutti quegli agricoltori che nonostante la comparsa nel tempo di altri cereali, in alcune zone d’Italia, soprattutto in aree di montagna con terreni freddi e calcarei, hanno continuato a coltivarlo.
10/12/2008 - Modifica del decreto 21 Maggio 2007 relativo alla protezione transitoria accordata a livello nazionale alla denominazione «Farro di Monteleone di Spoleto» (GU n. 303 del 30-12-2008 )
09/06/2007 - Il Farro di Monteleone di Spoleto ottiene la Denominazione di Origine Protetta- Decreto del Ministero delle politiche Agricole Alimentari e Forestali, 21 Maggio 2007pubblicato sulla GU n. 124 del 30-05-2007